giovedì 16 gennaio 2014

Lo Hobbit: note sparse di rilettura

Dopo aver visto il secondo capitolo della saga di Peter Jackson sullo Hobbit di Tolkien, la nostalgia per il libro con la sua atmosfera fiabesca, poco imparentata – sebbene rievocata nel primo film dai canti e dalla casa hobbit - con le molte visioni eroiche, tetre e apocalittiche del regista, ha avuto il sopravvento e così ho deciso di rileggerlo, a distanza di vent’anni. Rilettura sì, ma libro nuovo e attraversato con tutte le altre letture conoscenze e curiosità accumulate o dissoltesi nel tempo. Così, di ritorno per pochi giorni in Inghilterra, ho acquistato la mia copia dello Hobbit in una libreria indipendente nel nord di Londra, la Owl Bookshop nel quartiere di Kentish Town. La scelta del negozio non è stata ovviamente casuale. C’è un gufo (owl) sul suo stemma, e come spesso mi succede mi incapriccio di certi luoghi senza averli visti, a causa dei loro nomi o della loro posizione geografica. Dunque ho scelto l’edizione rigida con le illustrazioni originali di Tolkien, compresa la famosa sovracopertina che riassume in sé i paesaggi del viaggio di Bilbo: le montagne, il fiume, le selve, Bosco Atro,  la luna e il sole dell’autunno, le aquile e la sagoma rossa di Smaug.





Cominciamo dalle illustrazioni: i disegni semplici di Tolkien sono i miei preferiti, insieme a quelli realizzati da Tove Jansson per le edizioni scandinave, probabilmente perché accentuano la dimensione orale in cui per prima la storia vide la luce: non è difficile immaginare l’autore a sera, alla luce del fuoco acceso, raccontare ai quattro figli le avventure di Bilbo e dei Nani, inventandole così, nel formarsi della fiaba  in punta di lingua. Stesso contesto rievocato al principio, nella casa dell’antieroe Baggins invasa dai 13 nani, dallo stregone e da una mappa a lume di candela. Bilbo ci piace proprio per questo – perché vive un’avventura suo malgrado, la sua presenza e la sue impreviste fortune ci fanno sentire il conforto di un ritorno, della casa, con le sue bevande calde e i libri e le coperte gettate sulle gambe mentre fantastichiamo. Chissà che forse, come poi succede e ne siamo informati al principio de Il Signore degli Anelli, il motivo segreto per cui infine Bilbo si decide a divenire lo scassinatore della compagnia e uscire dalla Contea, è proprio quello di poter scrivere, infine, la storia, la sua Andata e ritorno.

Poi, le poesie, formule magiche che sospendono l’azione, ricordandoci che molto di ciò che di bello accade ha un carattere sognante, contemplativo. Davvero le montagne nebbiose e le attese e le paure dei protagonisti si profilano nell’oro pallido di questi versi:

Far over the misty mountains cold
To dungeons deep and caverns old
We must away ere break of day
To seek the pale enchanted gold.

Lontan sui monti fumidi e gelati
in antri fondi, oscuri, desolati,
prima che sorga il sol dobbiamo andare
i pallidi a cercar ori incantati.

E gli episodi che preferisco: l’inizio nel “buco”, gli indovinelli di Gollum, la conversazione tra Bilbo e Smaug, Gandalf che riappare tra gli uomini e gli elfi sulla pendice del monte – ma su tutti il soggiorno presso Beorn e Mirkwood, Bosco Atro.

La figura di Beorn, uomo orso che discende direttamente dal Beowulf inglese, dall’animale totemico d’Europa per eccellenza, è un formidabile protettore ed emblema della vita animale: in sé manifesta la cura e l’amore per i luoghi e per gli animali che li popolano e la ferocia, talvolta incontrollabile, che è una parte inscindibile della meraviglia naturale. Beorn offre inoltre a Tolkien l’opportunità di un’altra scena domestica rurale, ben diversa dall’ospitalità favolosa di Rivendell (tra le cui traduzioni io opto per Forraspaccata, come recita Lo Hobbit in edizione Adelphi, curato da Elena Jeronimidis Conte), dove il tempo si ferma e in qualche modo si chiude fuori. Nella dimore di Beorn il mondo all’esterno sa essere spaventoso; ma è oltre la porta di legno, la grande tavola – pare di trovarsi in una di quelle stagioni di pioggia e tempesta, quando tutto si scatena e tuttavia c’è un recinto di tregua nelle cose della propria abitazione. È infine la caverna dell’orso – l’animale vi trova rifugio e sicurezza, mentre l’inverno morde gli alberi e l’erba.

Bosco Atro, selva perigliosa, dove non bisogna lasciare il sentiero, è forse il luogo che più mi rammenta il folklore celtico di fate e spiriti, creature del crepuscolo e delle stelle, che amano danzare e festeggiare, ma che  diffidano degli sconosciuti, diventando in parte temibili - coloro che, racconta l’autore, non andarono nel Paese Occidentale, non accrebbero la loro saggezza o bellezza. Ma certo si intrisero delle cortecce e dei margini boschivi e per loro più che per altri la denominazione di Buona Gente (Good People), riecheggia delle credenze popolari, per cui era utile rivolgersi a fate ed elfi con eufemismi, lodi e appellativi gentili, onde non offendere  i loro umori capricciosi e suscettibili.


La conclusione del viaggio, con le sue morti e le lacrime di Bilbo, ha una valenza aggiunta rispetto alla sorpresa della prima lettura. Citando dal saggio sulla Fiaba di Tolkien, “l’ombra della morte” – così inscritta nel destino delle fiabe  – “può donare dignità e talvolta saggezza”. Esattamente quella con cui Bilbo rientra nella Contea, e perde sì la reputazione tra i suoi simili, in quanto figura strampalata, amica di stregoni e nani, ma per appropriarsi della sua storia, il canto più duraturo tra tutte le poesie. 

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