venerdì 21 febbraio 2014

Liombruni

“Soprattutto, esistono i liombruni?”

è la domanda che ricorre per tutta l’opera di Giovanni De Feo, L’isola dei liombruni, romanzo “gotico mediterraneo”, per restare nell’azzeccata definizione dello stesso autore, ambientato tra il mondo della veglia e quello del sogno, durante la fine dell’estate su un’isola mediterranea che ha qualcosa di tutte le terre e isole infantili delle vacanze.

Liombruno è il protagonista di una fiaba popolare lucana, un tredicenne consegnato dal padre al “Nemico” (o Diavolo), in cambio di una pesca fruttuosa e  riscattato e amato da una fata. Il nome, rimasto nella mente dell’autore come una suggestione epifanica, acquista nel libro un doppio significato: da una parte l’isola è abitata da bambini e adolescenti; dall’altra i liombruni sono animali dal corpo sinuoso, a metà tra donnola e gatto, e dagli occhi d’oro. Crescono di numero e non possono essere uccisi. Sono il mistero ultimo, muto dell’isola.


Fino al risveglio, la vicenda tiene in sé e dona una luminescenza nuova a figure e mondi letterari, che mi interessa qui analizzare. Si comincia dai nomi dei ragazzi che spesso suonano bizzarri, arcaici.
Nel sogno l’identità subisce un rovesciamento: ciò che i protagonisti sono nel quotidiano decade, lasciando affiorare la personalità e il carisma che vorrebbero, la loro anima più selvaggia, meno imbrigliata da convenzioni e imbarazzi. Così mutano i nomi e appaiono Canio, Ascadeo, Sapia, Cannarone, Granizia, Cecella, Creso, Mase, Renzolla, Noviano, Cagliuso … eppure, con l’eccezione di Zenzero e Smiccio, gli appellativi non sono affatto inventati. Provengono infatti da Lo cunto de li cunti di Gianbattista Basile, scrigno di storie della tarda età moderna, da cui tutta la tradizione fiabesca letteraria d’Europa ha attinto. La storia è dunque anche una fiaba senza eroi - l’eroe fantasma che respira ovunque è, semmai, l’adolescenza -   in cui non accade molto, ma ciò che accade è, citando Peter Pan in procinto di affrontare la morte, an awfully big adventure: una straordinaria avventura. E proprio l’immaginario che nutre il Peter Pan di J.M.Barrie si riversa copiosamente nel libro. In fondo, e De Feo sembra saperlo bene, noi non facciamo altro che rivivere le nostre memorie, anche quando queste ci piovono dentro da un libro. Quando inventiamo siamo in realtà a dialogo con un’ossessione che è nostra come di altri, da altri detta, prima di noi. Ma è appunto l’io che inventa o, nell’opera, Zenzero, che sceglie cosa ricordare, a fare la differenza. Così se l’Isola Chenoncé si avverava in sogno, anche l’isola del romanzo ha una nuova vita onirica, dove non c’è spazio per essere grandi. L’aspetto implicitamente inquietante di Peter Pan, suggerito ad esempio dagli incubi notturni che lo tormentano o dal suo stato di “ragazzo tragico”, qui si ibrida allo scenario de Il signore delle mosche, prendendo consapevolezza di sé. I pochi adulti superstiti vengono chiamati Alti e sono preda della furia omicida dei ragazzi; la morte ha un posto di tutto rispetto sull’isola, ma ovviamente anche lei soggiace alle regole del sogno. Ricorderemo come il Peter vestito di foglie secche, privo dell’ombra (o dell’anima), guida spettrale di bambini morti, riportasse la primavera e provocasse l’inverno con la sua assenza: questo ruolo semidivino viene svolto sull’isola di De Feo dagli scalzi o senz’orme, che camminano “più lievi delle ombre”  e incarnano ogni fenomeno naturale di quella terra – dalle stelle ai fiori, ai cani, alle schegge di pietra.

Anche nell’isola i ragazzi muoiono, andando a nutrire le genti subacquee di Marchionno, scalzo dei morti; oppure vengono scelti da altri scalzi per divenire come loro: senza ombelico, con piedi trasparenti e vitrei, occhi d’argento - creature che non hanno più alcun legame con il mondo al di là della breccia dei sogni. Il corrispettivo femminile degli scalzi sono le sibille, che vedono, pur avendo occhi ciechi, e aprono così un varco tra le due dimensioni. De Feo conia felicemente il verbo “imbestiare”, per indicare lo stato che precede la muta in scalzo o sibilla: i ragazzi e le ragazze imbestiano commettendo suicidio o restando incinta e abortendo nell’acqua del mare (il grande mare sconosciuto e accogliente del sonno) che risana ogni ferita. Perché sull’isola i ragazzi non giocano e uccidono solamente, ma amano nell’unico modo a loro concesso, di un amore ardente ed effimero. L’imbestiare dunque si traduce nel cedere a una passione, facendosene possedere, adempiendo a un destino profondo, perfino anteriore alla natura fisica e attuale dei protagonisti. Dell’adolescenza emergono tutti gli aspetti più sanguigni: l'ebbrezza, i moti violenti, la scoperta del sesso, l’uccisione dei padri e delle madri,  il desiderio di fermare quel momento in cui è ancora estate ed è sottile la cortina che divide il gioco, il capriccio, la gioia selvaggia, senza interrogativi, dalle responsabilità, la dimenticanza, l’amore degli adulti.

Negli scalzi si avvera il sogno poiché i ragazzi che erano non solo non cresceranno mai, ma, con una soluzione radicale, non saranno mai esistiti. Si fanno essi stessi pura trama onirica. E il sentimento difficile, di nostalgia mista a rancore, diretto alle madri nelle storie di Peter Pan, assume qui tutt’altra valenza: gli adulti sono imperdonabili perché non sanno ricordare. Archiviano, chissà dove, sotto quali acque salmastre, l’essere stati, una volta, bambini e poi ragazzi. Forse tentano di proteggersi da uno struggimento che rischia di ripiegarsi su di sé, facendo dell’antico bambino una caricatura grottesca. Penso allo scalzo più spaventoso, Cuosemo delle ombre, incarnazione terribile dell’ombra della fiaba anderseniana, in cui un uomo e la sua ombra tentano un rapporto paritario fino all’agghiacciante scambio conclusivo. Come si può restare fedeli all’adolescente, al bambino e non allungarsi sgraziati nella sua ombra, crescere, riconoscendo ogni esperienza?


Se come ha scritto Cristina Campo: “Il cammino della fiaba s’inizia senza speranza terrena”, la fiaba è anche la via impossibile che ci porta nel mondo. Disegna per noi un altrove che è la somma delle nostre paure, perdite, aspirazioni e da cui dobbiamo venir fuori. Ma si può, forse si può, percorrere al contempo due mondi, trovarla, la speranza. Questa possibilità sta nell’accettare che una buona parte di ciò che ci fa vivi ha dimora nella terra dei morti, della memoria a venire. È con questa difficile speranza che chiudiamo questo libro prezioso e intimo, guardando l’ultimo liombruno uscire nel sogno, dal torace dell’ultimo ragazzo semidivino e morto. Non sappiamo se i liombruni sono anche qui, nelle città e nei luoghi dove si frequentano scuole, si abbisogna di un impiego, si tace la propria inquietudine seguendo i dettami del senso comune. Ma è certo, qualcuno non smette di cercarli. 

PUBBLICATA SU LANKELOT.

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