sabato 19 marzo 2016

La necessità dell'essere adulti. Recensione a Tutti gli altri

Riprendo e pubblico una bella recensione al mio romanzo, apparsa sul numero corrente (marzo 2016) della rivista Le Voci della Luna. Grazie!



di Anna Franceschini


Il romanzo di Francesca Matteoni, Tutti gli altri (Tunué 2014 ) inizia nel punto esatto in cui nasce l’immaginazione: l’infanzia, l’adolescenza, l’età che si appresta a diventare matura, quella più pregna di realtà, che subisce gli eventi che non lasciano scampo. È questo il raccordo con il significato ultimo di noi stessi e della nostra storia: il passaggio dal mondo concreto al pensiero immaginifico costellato di figure rassicuranti e terrorizzanti che saranno la base dei nostri sogni futuri, e dei significati che daremo alle esperienze. L’io narrante è consapevole e presente alla propria storia. Ne ha scandagliato ogni falla, ha archiviato immagini e pensieri, ogni ostacolo del percorso lo ha perlustrato con perizia, l’ha coltivato e ce lo rende con ordine e senso, quella necessità di senso dell’età matura, per cui vivere diventa un compromesso con la vita stessa.

Una fiaba ci conduce alla storia dei ricordi e ci invita a una sorta di rassegnazione di fronte agli avvenimenti: è Pinocchio, in un racconto dell’autrice bambina, che introduce un mondo che d’ora in poi, dall’attimo in cui possiamo capire, non avrà più né capo né coda o sarà rovesciato e lontano da ciò che avremmo desiderato.

La fiaba funge da avvertimento, non è una lezione di vita, non insegna; illustra, piuttosto, metaforicamente ciò che più da vicino, in seguito, avrà risvolti dolorosi e creerà conflitti. Possiamo dormire pacifici: non ci resta che aspettare, perché tutto avverrà.

Il romanzo sembra scaturire da una fiaba, da un racconto raccontato che ci si racconta, è un intreccio di personaggi che camminano su una traccia fantastica, si avvicinano al mito e toccano la cruda realtà. Si tratta di passaggi repentini, collegamenti inusuali tra mondi diversi che appartengono alla mappa esistenziale reale-fantastica del vissuto:

“Mia nonna, in quella terra del mare, era la sapienza che esistevo da un’altra parte cui dovevo far ritorno, e forse in questo la sapienza che esistono altre vite in cui possiamo nasconderci; era la sorpresa di una radice che manda un segnale alla chioma.” (p. 13)

Nel brano citato, la nonna appare ferma nel tempo, appartiene a uno strato di esistenza non manipolabile, al quale è necessario tornare per dipanare il filo. È un residuo di fede, un mondo premonitore che conosce i nostri passi e sa dove arriveremo. La donna sembra, dunque, una stratificazione buona del sé, che ci protegge conservando e contenendoci.

Ogni capitolo dell’opera, inoltre, porta un titolo che richiama un personaggio simbolo a cui bisogna far riferimento per arrivare a un significato complessivo, come nell’arte divinatoria dei tarocchi, in cui le carte, rappresentazione di un dilemma nella composizione che assumono sulla tavola, arrivano in un secondo momento, attraverso l’interpretazione, a unire segni, immagini e figure in una rappresentazione di ordine sapiente.

Ne Il castello dei destini incrociati, per fare un parallelo, Calvino gioca con le carte come se appartenessero ad una macchina narrativa: ogni carta rappresenta un’immagine in un tessuto complesso frutto di libere interpretazioni e associazioni da cui far nascere una storia plausibile. Anche Francesca Matteoni sembra utilizzare questo complesso sistema combinatorio, privato, però, dell’aspetto ludico-letterario: è come se le carte fossero Pinocchio, Medusa, Mangiafuoco, Alce e nomi di amicizie, figure imprescindibili dalla vita stessa dell’autrice - che ne hanno formato la persona - distese su una mappa cerebrale e sentimentale e affiancate l’una all’altra. Pronte per essere interpretate, queste “carte” partecipano agli eventi, alle persone, ai luoghi, ordinate fino a fare una storia che non è un racconto immaginario qualsiasi, ma l’impronta di una vita, di una verità incresciosa che appartiene all’autrice come il suo stesso corpo. Del resto la stessa Matteoni scrive:

“Mentre vivi che cosa sai, riconosci appena che il mondo intorno a te non è te, che gli altri non vedono come te, e finché non muori la tua diversità è il corpo in cui t’inceppi.” (p. 15)

Tutti gli altri sembrano, dunque, coloro che appartengono al mondo che non è quello della protagonista delle vicende narrate: un mondo conforme, a tratti crudele, menzognero e scaltro. Gli altri sono le interpretazioni fuorvianti e insensibili, l’insensatezza e il pregiudizio, il magma esterno nell’attraversamento difficile di una sensibilità altra che spinge per trovare l’accettazione e scalpita per ritornare al proprio rifugio incomprensibile. Ma vero.

Le regole sociali, i doveri, gli obblighi, i ruoli si contrappongono a vicende che non trovano posizione, a piani di significato in cui riporsi pacificamente: esperienze che scricchiolano, smuovono sentimenti che creano opposizioni. Riuscire ad attraversare tutto ciò diviene, così, sinonimo di resistenza e comprensione.

Il corpo è il fine ultimo, il centro assoluto di questa esistenza circolare governata dall’occhio premonitore dell’io narrante, ormai parte dei due mondi avversi che non smetteranno mai di contrapposi ma, al contrario, troveranno la possibilità di comunicare attraverso la scrittura. La morte si rivela nel corpo, nelle deformità, nei segni che lo contraddistinguono: è concreta e certa; è una linea di demarcazione che segna con una crudeltà giusta il punto in cui ci si deve fermare. L’autrice parla di questi segni netti, limiti che si susseguono e tagliano la storia in maniera drammatica: la perdita degli affetti a lei più cari. La morte diviene una ricerca del sé, una memoria fissa che ci racchiude:

“Una partenza. Un ritorno. La consapevolezza indicibile che ovunque noi possiamo andare, qualsiasi ferita inferta e subita o ambizione, sogno di grandezza ci vaghi per la mente, c’è una memoria che resta fissa, non ha fretta, ci attende sul limite delle cose e le ricompone, come se mai ci fossimo dispersi.” (p. 73)

In uno dei capitoli conclusivi del romanzo, si racconta dell’incontro con un alce e della meraviglia, nonché del senso di sospensione, suscitata da questo evento, come se in un attimo fosse possibile toccare un mondo sconosciuto e misterioso che si concede a noi. Si tratta di un momento di autenticità e pienezza che ricorda, vagamente, Canto alla durata di Peter Handke, poemetto nel quale l’autore ricerca, attraverso la scrittura poetica, questi momenti catartici. La durata, dunque, si presenta come quell’unico attimo di piena coscienza avvertito in un istante nel nostro destino. Quello stesso destino che, invece, ci inganna, lasciandoci credere di essere in balìa degli eventi.

La durata è, infine, il momento in cui si ha la percezione che esista armonia tra le cose che sono, come natura e civiltà nell’incontro tra l’alce e l’autrice in Tutti gli altri. È quell’attimo che segna l’unione ritrovata tra più periodi della propria esistenza, dall’infanzia all’età matura fino alla vecchiaia, immaginata, e alla fine.

La scrittura è, d’altra parte, il punto di arrivo di un lungo e impervio percorso di ricerca e affondo nel dolore allo scopo di trovare la capacità di sentire intimamente, con la stessa forza che richiede la capacità di scrivere:

“Dentro i segni stanno sillabe e parole intere, frasi. Le sento farsi solide, tridimensionali, affollarsi per uscire nell’inchiostro, ma la mia mano non è mai troppo salda per reggere l’impatto: trema, preme forte sulla carta, s’inceppa. Mia madre è colei da cui vengono le parole, come un flusso iridescente fino al centro della testa.” (p. 99)

È dunque, per concludere, il rapporto pacificato con la madre che, in sogno, aiuta l’autrice a salire su una nuvola. È la protezione connaturata e necessaria dell’essere adulti, quella chiusura protettiva sui propri ideali e sugli eventi vissuti che permette la riuscita di un’esistenza piena.

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