(questo mio scritto è apparso sul primo numero cartaceo de Lo Snodo, rivista di Arci Pistoia, pubblicato a marzo).
Janet Frame, a Londra, lungo il Tamigi, direi |
Sono da
sempre convinta che ci avviciniamo a certe storie quando ne abbiamo bisogno.
Allora funzionano come specchi che rimandano la più inusuale delle immagini –
un volto, una forma di salvezza che ci corrisponde. Tra i molti libri per cui
questo è vero, penso alle opere di Janet Frame, scrittrice neozelandese che
grazie al suo talento evitò la lobotomia. Alla soglia dei trent’anni era sopravvissuta
a una diagnosi errata di schizofrenia, all’internamento in una struttura
manicomiale e a centinaia di elettroshock. Nei suoi racconti un immaginario
fiabesco dà voce e dignità agli eventi tragici della sua vicenda, che è infine
quella di un essere umano sincero fino al punto di essere ritenuto folle, i cui
comportamenti si allontanano da quanto si ritiene comunemente accettabile, la
cui fragilità è troppo esposta, i cui traumi e i precoci lutti familiari non
sono né rimossi né nascosti, la cui timidezza impedisce la comunicazione con
gli adulti, non affatto riconosciuti come simili. Ma le parole gridano quando
l’oppresso in noi è così poderoso da renderci la pelle trasparente, risplendere
e spaventare gli altri. Per questo a volte non si possono dire e occorre
scriverle, occorre un altro mondo, un paese lontano in cui viaggiare e trovare
il reale, non esserne sconfitti, diventarne parte. Da bambina la Frame aveva
scritto in un diario: “loro credono che diventerò un’insegnante, ma io
diventerò un poeta”. Quanto inappropriata come professione e per una donna negli
Anni Trenta, poi! Eppure fu proprio questa vocazione, accolta e difesa, che
dopo averle provocato l’esilio le fornì il riscatto.
Dicono i
versi di Rainer Maria Rilke da cui Un
angelo alla mia tavola, il romanzo autobiografico, prende il titolo:
Resta dove sei, non ti muovere
Se all'improvviso un angelo si siede alla tua
tavola
Cancella piano le poche grinze
Della tovaglia sotto il tuo pane.
Offri
i tuoi pochi bocconi
così
che lui possa assaggiarli
e
portare alle sue labbra pure
un
semplice bicchiere di tutti i tuoi giorni.
L’angelo
che arriva inatteso è, nel caso della Frame, l’arte poetica, la vera vita che
già per Virginia Woolf risiedeva solo in quanto evocato dalla scrittura; ma più
profondamente e in modo universale, l’angelo, che non tutti riconoscono, è
l’essenza, quell’autenticità che fino alla fine si manifesta, fino alla fine
mette in atto il processo di conoscenza di sé. Ci vuole audacia per stare
sull’orlo di un pozzo, guardare dentro sbilanciandosi, portare fuori nella
terra dei vivi l’esperienza che risiede laggiù, il buio che misura la luce.
Forse la follia non è che questo: una perdita di equilibrio, una caduta là
dentro. Ma mi chiedo se chi nemmeno getta un’occhiata sia davvero più sano. Prendi la
penna e impara a guardare, scriveva Amelia Rosselli, il più grande poeta
del secondo novecento italiano, che per la sua follia morì suicida. Oppure
prendi la scrittura e usala perché anche i muti parlino.
Nel
mese di dicembre ho condotto insieme ad Azzurra D’Agostino, poeta di Porretta
Terme, un laboratorio di poesia in un centro territoriale cui fanno capo alcune
case famiglia della provincia di Oristano. Il gruppo con cui abbiamo lavorato
era composto di circa venti persone fra operatori e degenti psichiatrici di età
compresa fra i venti e i cinquant’anni,
individui la cui condizione li relega ai margini delle logiche sociali
più in voga. Ciò che diviene molto chiaro in questa situazione è che non si ha
nulla da insegnare, si porge solo uno strumento, una possibilità a un altro
individuo di esporsi con coraggio. Noi non sappiamo le loro storie. Ma nel
semplice gesto dello scrivere una poesia in sardo, un verso sul mare o su un
animale amato, nasce la fiducia che ci sia qualcuno dall’altra parte capace di
ascoltare, qualcuno che vuole vedere come sia in fondo una linea arbitraria
quella che circoscrive la norma, e come talvolta chi non ha paura – perfino di
crollare – sia chi resta sotto, chi chiede nel silenzio, chi con la sua nudità
non è affatto migliore, ma disarma, ribalta in un attimo ogni idea sull’utile e
il disutile. Ho pensato a Janet Frame che poté scrivere e quindi fu salva. All’affidarsi
a qualcosa o qualcuno che ci dia voce in un gesto davvero fraterno. Alle
frontiere effimere che non ci mettono al sicuro, alla grande paura che ci
intima di vedere come siamo – per dirla con il poeta romagnolo Nino Pedretti, La paura, la paura che viene/ ma il cuore la
tiene/come gli occhi dove passa la luna.
Una luna di invenzioni e inganni, che vaga sui normali e sui pazzi, ci
fa tutti minuscoli, uguali.
* Il titolo è tratto da un verso di Tulipani, una poesia di Sylvia Plath.
Riferimenti bibliografici
Janet
Frame, Un angelo alla mia tavola,
Torino: Einaudi, 1997
Nino
Pedretti, Al Vòusi e altre poesie in
dialetto romagnolo, Torino: Einaudi, 2007
Sylvia
Plath, Opere, Milano: Mondadori, 2002
Amelia
Rosselli, L’opera poetica, Milano:
Mondadori, 2012
L’ultimo
libro di Azzurra D’Agostino è Quando
piove ho visto le rane, Livorno: “Premio Ciampi”, Valigie Rosse 2015.
L’ultima
pubblicazione dove sono presenti poesie per bambini di Azzurra D’Agostino e
Francesca Matteoni è l’antologia Scacciapensieri.
Poesia che colora i giorni neri, Mille Gru, 2015.
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